Waiting Game - Atharaxis - Shingeki no Kyojin (2024)

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Non era la prima volta che Erwin chiedeva a Levi di accompagnarlo a una di quelle pompose serate di raccolta fondi che organizzavano all’interno del Wall Sina. Levi, d’altro canto, sapeva che avrebbe dovuto presentarsi da parecchio tempo davanti alle teste coronate, ma sapeva anche che la sua carica non era politica: era il Capitano dell’Armata Ricognitiva, un’autorità solo ed esclusivamente dal punto di vista militare. Senza contare che a lui, di cosa fosse la buona educazione in quei contesti, gliene fregava meno di un cazzo dato che si trattava principalmente di soddisfare la curiosità di ricchi boriosi.

Era indubbio che la sua sorprendente scalata nei ranghi fosse stata oggetto di chiacchiere, dentro e fuori dalle fila dell’esercito. Dopo il suo arruolamento - al quale aveva fatto seguito poco dopo la promozione di Erwin a Comandante - di fatto le spedizioni avevano fatto registrare un numero di morti di gran lunga inferiore, ed era stato attribuito alle eccezionali capacità di quel soldato “forte come un intero battaglione”. Chi era più pratico di strategia, pur riconoscendo la forza di Levi, sapeva che il merito si doveva anche e soprattutto al nuovo assetto strategico della cavalleria ideato dal Comandante, che permetteva di minimizzare il numero di incontri - e quindi, di battaglie. Meno scontri, meno morti. L’equazione era semplice.

Nonostante Levi facesse attenzione a non alimentare le dicerie sulla sua persona, non c’era stato modo di tenerle a bada: persino chi lo detestava aveva finito per contribuire a quel cicaleccio. Sull’articolo di un giornale cittadino era comparsa un’intervista a cui ricordava chiaramente di aver rifiutato di partecipare. Il giornalista, indignato da quell’indisposizione, doveva aver rovistato persino nell’immondizia del castello pur di trovare qualcosa su di lui. Aveva scritto, giurando e spergiurando sull’attendibilità delle sue fonti, che “il Capitano Levi era dipendente dalle sostanze stimolanti” - se così si poteva definire il té - e “talmente cagionevole da dover pulire costantemente la sua stanza". Levi si era chiesto se quel coglione si fosse mai fatto un giro per la città sotterranea, ma si era limitato ad alzare un sopracciglio mentre leggeva quello spreco di carta e inchiostro che osavano chiamare “giornalismo d’inchiesta”. L’articolo si concludeva chiedendosi quali altre stranezze avesse “il soldato più forte dell’umanità”, ed era chiaro che in quell’appellativo ci fosse del malcelato disprezzo. Non l’avesse mai scritto.

Quel soprannome gli era rimasto appiccicato addosso, e ormai anche le giovani reclute quando lo vedevano passare per gli angusti corridoi del castello, o i bambini che si accalcavano ad acclamare il ritorno dell’Armata Ricognitiva, mormoravano quel titolo con ammirazione. Lo detestava.

«La gente ha bisogno di costruirsi i propri eroi, Levi.» Così gli aveva detto Erwin.

«Pensa quanto sono disperati se hanno bisogno di credere in me.» Levi aveva alzato gli occhi al cielo, sputando quelle parole con il suo solito sarcasmo. Solo dopo si era reso conto di quanta triste verità nascondessero davvero. Erano disposti a dare una possibilità persino a un topo di fogna come lui, uno a cui molti di loro non avrebbero lanciato nemmeno una monetina per strada fino a qualche tempo fa. Un criminale. Si fa presto da demoni a diventare angeli. Si fa presto, quando in giro ci sono mostri peggiori di te.

Non tutti però avevano deciso di attaccargli delle ali di piume alle spalle, ed era questo il motivo per cui alla fine Levi, quella sera, si era infilato nel cappotto d’ordinanza pettinandosi i capelli all’indietro. Nonostante non gli interessassero le chiacchiere di corte, le orecchie le aveva anche lui. Di recente gli era capitato di sentire per strada qualche sbarbatello della Polizia Militare sostenere davanti ai suoi degni compari che il Comandante Erwin si era fatto mettere sotto da un criminale qualsiasi. Quella feccia non l’aveva riconosciuto, di spalle e in abiti civili, e perciò la tentazione di piantargli inavvertitamente un coltello nel piede era stata forte. Aveva resistito - la disciplina militare aveva sortito un qualche effetto sul suo carattere, dopo tutto. Da quel momento aveva cominciato ad aguzzare l’udito in presenza di quei vigliacchi: più di qualcuno sosteneva che il Comandante si stesse rammollendo, che avesse preso al suo fianco un cane pazzo che nemmeno lui era in grado di gestire. I più fantasiosi avevano addirittura ipotizzato che Levi fosse il nucleo di una cellula di ribellione, e che prima poi l’Armata Ricognitiva sarebbe stata completamente in mano alla criminalità organizzata. Dovevano avere davvero tanto tempo da perdere, quegli imbecilli, per partorire storielle così fantasiose.

Levi dubitava che Erwin non ne sapesse proprio niente di tutte quelle cazzate, ma aveva apprezzato che non avesse usato quelle argomentazioni per farlo sentire in obbligo a venire con lui agli eventi ufficiali. Non gliel’aveva nemmeno mai ordinato, a dirla tutta, e avrebbe potuto farlo. Lo aveva sempre lasciato libero di scegliere, limitandosi a proporre di tanto in tanto la possibilità di una presentazione ufficiale. E quindi, lo aveva visto genuinamente sorpreso quando alla fine Levi quella sera, di punto in bianco, si era offerto di accompagnarlo.

«Tutto bene?» La voce di Erwin lo aveva riscosso dai suoi pensieri.

Levi non era abituato a tutte quelle chiacchiere, e si era estraniato con la scusa di prendere qualcosa dal buffet ingombro di cibo. In effetti, c’era l’imbarazzo della scelta: un arrosto di carne troneggiava nel centro del tavolo, con un coltello d’argento piantato nel mezzo, e accanto quattro ciotoline di salse di colori e consistenze diverse; e poi sculture di frutta tagliata a fette sottili, frittatine di uova di quaglia su fette di pane bianchissimo e tartine ripiene di cose che non riconosceva nemmeno dall’odore. Ci avrebbe sputato sopra. Qualsiasi curiosità culinaria era morta e sepolta sotto un’abbondante porzione di disgusto per quella gente che beveva e gozzovigliava, quando il massimo del lusso nel sottosuolo era trovare dei funghi che non ti sciogliessero le budella.

«Alla grande. So persino usare le posate, hai visto?» Levi aveva alzato un sopracciglio, facendo tintinnare appena la forchetta sul bordo del suo piattino vuoto. Si era pentito subito di quelle parole, dettate dall’astio: Erwin non capiva sempre le sue battute e dava l’idea di esserci rimasto genuinamente male. «Scherzavo. Era uno scherzo. So che sai che so usarle.» La ruga sulla fronte del Comandante si distese lasciando spazio a un’espressione più rilassata. Era strano, Erwin. Non ragionava come tutti gli altri; non aveva mai visto malsana curiosità nei suoi occhi, o smaccata pietà per le sue origini. Erwin lo trattava come qualcuno che venisse da un paese straniero e dovesse adattarsi a scrivere in un altro alfabeto, o a portare indumenti di foggia diversa. Tutto qui.

«Ti consiglio di mangiare. Gli avanzi del banchetto andranno alla Polizia Militare, poi alla servitù del palazzo, e poi ai cani.» Erwin stava fissando il suo piatto vuoto: sempre pragmatico, ma quello sì che era il modo giusto per fargli venire fame, doveva ammetterlo.

«Tch. Se si tratta di rubarlo a quegli animali, vedrò di ingozzarmi come un maiale. E no, non sto parlando dei cani.» Levi afferrò il coltello piantato nell’arrosto e se lo fece girare in mano, prima di affondarlo di nuovo nella carne tenera e affettarsi una succosa fetta che si servì direttamente con la punta della lama. Vide Erwin alzare le spalle, come a dire che non era un suo problema, ma se non fosse stato per lui Levi l’avrebbe strappata coi denti e mangiata direttamente dalla punta del coltello. Aveva fatto lo sforzo di venire fin lì, col vestitino buono e i capelli impomatati, per dimostrare a tutti che il Comandante non aveva preso con sé un randagetto idrofobo, ma un animale da combattimento addestrato. Doveva comportarsi bene, e usare coltello e forchetta come un bravo bambino. La platea, per fortuna, non gli stava rendendo il compito difficile. Nessuno gli aveva fatto domande insidiose, né aveva cercato di provocarlo - a quanto pare bastava mettersi in ghingheri per ottenere il minimo della decenza umana da quei ricchi sbruffoni.

«Tra un’ora circa credo che i nostri obblighi istituzionali potranno ritenersi soddisfatti.» Erwin stava scrutando la sala, le mani dietro la schiena, come se stesse studiando un itinerario. Nessuna delle sue conversazioni era casuale, e forse era proprio la sua presenza a impedire che Levi fosse subissato di domande. Gli stava rendendo il compito più semplice. «Sono sicuro che vedremo presto i benefici di questa serata.»

«Basta che non diventi un’abitudine.»

«Ci si presenta una sola volta in società.»

Levi masticò quel cubetto di carne che si era tagliato con cura: era buonissimo. Non poteva fare a meno di pensare a chi aveva trascorso un’intera vita senza averne mai assaggiato un pezzo. C’era persino chi si arruolava nella speranza di aver garantiti almeno due pasti al giorno. Si sforzò di masticare quel boccone amaro, che sapeva di privilegio.

Levi aveva gli occhi bassi sul suo piattino, di nuovo perso nei suoi pensieri, e sentì solo qualcosa sfiorargli la fronte. Sussultò, combatté il suo istinto - brandire la forchetta come un’arma ad una serata di gala non era di certo una gran mossa. Quando alzò lo sguardo, appena un istante dopo, il suo corpo aveva ormai compreso che quel contatto non era una minaccia. Erwin gli aveva scansato un ciuffo ribelle dalla fronte, troppo corto per essere appuntato dietro le orecchie. Levi doveva avere un’espressione strana sul volto, perché Erwin si era subito ritirato, aveva persino fatto un passo indietro. Essere colto alla sprovvista gli faceva ancora quell’effetto. Era solo un gesto di gentilezza, talmente familiare che si sentì arrossire la punta delle orecchie, ma il suo primo impulso era stato mordere la mano che lo accarezzava. Forse era davvero un cane pazzo, dopo tutto.

«Scusami. Ti lascio mangiare.»

Aveva tenuto gli occhi bassi finché non l’aveva visto allontanarsi, e poi aveva affondato con rabbia la forchetta nella carne. Erwin era gentile con lui, ma ogni volta che lo sfiorava finiva per reagire a quel modo. C’è da dire che il Comandante pareva che facesse apposta, a toccargli il braccio quando era voltato di schiena, intento a spazzolare d’impegno il suo cavallo nella scuderia; oppure come quella volta che gli aveva appoggiato le mani sulle spalle mentre beveva il tè, il busto appoggiato su una feritoia che affacciava sul cielo al tramonto. Se le ricordava tutte, le volte che si erano toccati. Quel contatto non gli era mai dispiaciuto, sebbene fosse certo di avergli sempre dimostrato il contrario con il suo comportamento. Eppure, se non l’aveva mai sentito arrivare al punto da sorprendersi ogni volta, trasalire, tirarsi indietro, il motivo era uno soltanto: quel passo ormai, per lui, era familiare. Non si sentiva in pericolo, non innescava i suoi sistemi di allarme. Erwin poteva farglisi talmente vicino che, se avesse impugnato un coltello, Levi se ne sarebbe accorto quando aveva già la punta della lama infilzata nel cuore. Chissà se questo il Comandante lo aveva realizzato.

«Capitano Levi?»

Questa volta la voce non aveva nulla di familiare. Zazzera corvina, volto severo, barba e baffi appena accennati. Lo stemma della Polizia Militare sul braccio. Stava andando troppo bene, la serata.

«In persona.» Levi appoggiò il suo piattino sul tavolo per incrociare entrambe le braccia davanti al petto. Niente forchette in mano, per sicurezza.

«Comandante Nile Doak.» L’uomo allungò la mano, Levi gliela strinse: i calli di chi è abituato a impugnare le lame erano scomparsi da tempo. Il palmo decisamente troppo morbido per uno che si faceva chiamare Comandante . «Sono stato una recluta insieme al Comandante Smith.» Nile accennò un mezzo sorriso, ma Levi non ricambiò. Il bisogno di fare quella precisazione non faceva presagire nulla di buono. Se pensava di stargli simpatico solo perché una vita fa giocava a nascondino con Erwin, si sbagliava di grosso.

Nile tirò fuori qualcosa dalla giacca, e Levi era già pronto a tirar fuori i pugni, ma era solo carta: piccola, quadrata, bianchissima. Chiusa da un sigillo in ceralacca color dell’oro, un vago profumo d’arancia. Roba costosa.

«Mi è stato chiesto di consegnarla di persona direttamente nelle sue mani.»

Levi si era rigirato la busta tra le mani, aveva esaminato il monogramma - o meglio, aveva finto di farlo. Non ne sapeva un cazzo delle famiglie nobiliari, quella era roba di Erwin. La carta era abbastanza spessa perché non fosse visibile nemmeno una riga del contenuto. Nessun oggetto dentro, perfettamente piatta.

«Perché non al Comandante?» Levi mormorò distratto, come se parlasse ad alta voce. Osservò il suo interlocutore, sperando che gli venisse voglia di rispondere.

«Io…» Nile sembrava inquieto. Eppure quelli come lui dovevano essere abituati a sollevare buste, e polemiche imbecilli. «Credo che sia una richiesta personale. Molto personale.»

Levi alzò gli occhi, corrugò la fronte. Realizzò.

«Capisco. Facile pensare che uno che viene dalle fogne abbia fatto di peggio per un po’ di denaro. Potrei persino dire che apprezzo la faccia tosta.»

Nile se ne uscì con una risatina nervosa, guardandosi intorno. Non voleva che altri sapessero in che cosa consistevano i suoi incarichi, era evidente.

«Wow… Sei uno senza peli sulla lingua, eh? Erwin deve averti portato qui per questo.»

Quelle parole si infilarono nelle orecchie di Levi, gli scavarono fino al cervello: erano per caso questi i “ benefici” a cui pensava il suo Comandante quando parlava dell’utilità di introdurlo in società? La possibilità di ricevere donazioni “ grazie alla sua presenza” . Levi arricciò il naso, sbuffando nervoso.

«Immagino non sia un problema se mi consulto comunque con il mio superiore. La considero una questione di lavoro.» Inchiodò gli occhi ardenti su Nile. Noi andiamo a rischiare la vita fuori dalle mura e questo consegna letterine sconce. Si infilò la lettera nella tasca interna del cappotto per evitare di spaccargli la faccia.

«Immagino di no, ma… L’invito è strettamente personale.»

«E personalmente farò ciò che meglio credo. Puoi andare.»

Nile restò immobile per qualche istante: era chiaro che non volesse concedergli né l’ultima parola, né la soddisfazione di aver obbedito a quello che sembrava in tutto e per tutto un ordine.

«Dovresti trattare meglio i tuoi superiori.»

«Sei uno che mi ha portato una lettera. Siamo a malapena colleghi.»

«Chissà per quanto.» Nile ringhiò e gli diede finalmente le spalle, tutto tronfio per il suo piccolo affondo. Levi lo lasciò fare: non era né il primo né l’ultimo che gli augurava la morte, non era nemmeno la cosa peggiore che potesse accadergli. E non avevano nemmeno fatto a pugni.

Combattere contro i Giganti era semplice: grandi o piccoli che fossero, era sempre questione di puntare la lama contro l’avversario e affondare. Sbranare per non essere sbranato. Quando il nemico gli mostrava i denti, era facile. Quando nascondeva le zanne affilate dietro un sorriso, ecco: Levi a quel gioco non ci sapeva giocare. Il suo viso non era in grado di nascondere le emozioni, così come la sua pelle bianca mostrava ogni cicatrice, il segno di ogni brandello di carne che gli era stato strappato via. Si chiese se tra quelle mani che stringevano calici di vino e guanti di stoffa pregiata ci fosse quella che aveva scritto la lettera. Ogni sguardo che vedeva indugiare un po’ più a lungo sulla sua figura ora se lo sentiva scivolare viscido tra le pieghe del cappotto. Era stato facile darsi un tono con Nile, ma adesso sì che gli era passata la fame. Voleva solo andar via, togliersi dalla tasca gli spigoli di quella busta che lo punzecchiavano come spilli, i vestiti, la cera tra i capelli, tutto quanto. Lo spillo più affilato, però, era quella voce che ancora lo pungolava, quella che si domandava fino a che punto Erwin sarebbe stato disposto a sacrificarlo alla causa. Non gli aveva mai chiesto favori personali da quando si era unito all’Armata di Ricerca, e non credeva che avrebbe mai preteso da lui niente del genere: non era di certo qualcosa che rientrava nei suoi obblighi da Capitano. Lui, però, fin dove si sarebbe spinto per il desiderio di ricambiare quella fiducia? Questo Levi ancora non lo sapeva.

Quando Erwin andò a chiamarlo, Levi era più teso di quando era arrivato. Salutò educatamente il rappresentante del monarca e un altro paio di pasciuti leccapiedi, poi prese la porta senza dire una parola. Camminarono uno a fianco all’altro, in silenzio, nella penombra del lungo corridoio che si srotolava verso l’esterno dove si trovavano le scuderie con i loro cavalli. Il rumore secco degli stivali d’ordinanza era attutito dal pesante tappeto di lana, ma stavolta Levi percepì la mano di Erwin ancor prima che gli si appoggiasse sulla spalla. Quella consapevolezza gli confuse ancor di più la testa, e gli spezzò il cuore.

«Te la sei cavata bene.»

«Essere un figlio di puttana a quanto pare aiuta.»

Cercò il suo sguardo, pentendosi per l’ennesima volta di essere stato così brusco. Non poteva incolpare Erwin per averlo fatto partecipare a quella serata: era stata una sua decisione. Era bastato poco per farlo affogare nel suo stesso veleno, perché quel marchio indelebile delle sue origini tornasse a bruciargli sulla pelle.

Erwin lo stava guardando con le sopracciglia aggrottate e l’espressione confusa. Levi avrebbe voluto tirarsi fuori la lettera dalla tasca, mettergliela in mano e attendere, semplicemente attendere. Tirarsi fuori da quel macello di emozioni aggrappato come un naufrago a qualsiasi frase pragmatica sarebbe uscita dalla sua bocca, ma non era il momento. Non adesso. Non aveva le forze per quella conversazione.

«Lascia stare, sono solo stanco.»

«Torniamo al castello, allora.»

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Author: Jerrold Considine

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